Introduzione
Il nuovo ordine, dettato dalla Tecnica come Volontà di potenza che accresce indefinitamente se stessa, ci consegna scenari ontologici e antropologici inusitati, in cui innegabili conquiste convivono con evidenti “controfinalità”.
Rispetto a tutte le strutture epistemiche della nostra tradizione, quella tecnologica si profila con modalità ed esiti difficilmente riconducibili alle categorie ermeneutiche classiche.
Gli scenari antropologici dei giovani - le loro cartografie esistenziali - sono quelli più facilmente abitabili - e aggredibili - dalle grammatiche tecnologiche, aprendo interrogativi che non possono essere taciuti.
Per limitarci a qualche esempio:
Quanto viene amplificato il presentismo tipico dell’adolescenza dalla “tirannia del presente” tecnologico?
Quanto incide l’ontologia del virtuale sulla corporeità adolescenziale?
Quanto stupore alimenta ancora la fruizione immediata del mondo: il click è apertura esperienziale e relazionale o è choc, frattura esistenziale (Benjamin, 1966)?
E’ ancora possibile radicare nelle coscienze dei giovani l’etica della misura, sia pure per gradi, per squarci cognitivi e fascinazione, oppure il protagonismo collettivo imposto dalla Tecnica non lascia spazio a modalità antropologiche alternative?
1. Tecnica ed esistenza: schizzi antropologici
L’uomo come animale angosciato (Gabrielli, 2004), situazionato nella contingenza del divenire, ha, come documentano le grandi narrazioni culturali, rinvenuto da sempre nell’episteme (metafisica, religione, scienza, ideologia, economia, ecc.) la struttura stabile cui affidare il senso compiuto – e il Rimedio (Severino, 1958, 2013) - della sua angosciante nullificazione. La stessa Tecnica si impone come episteme, tuttavia, rispetto a tutte le strutture epistemiche che hanno costellato il nostro stare al mondo, l’episteme tecnologica tende a produrre in forme sempre più pervasive quello che Anders chiama “dislivello prometeico”, cioè l’asimmetria tra la capacità di produzione della Tecnica e la nostra possibilità di immaginazione, comprensione, conferimento di senso (Anders, 1956).
L’evoluzione e il potenziamento tecnologici si sono sostituiti a quelli naturali, con il rischio, accanto alle evidenti conquiste, di “controfinalità” (Natoli, 2010) che rischiano di fare dell’uomo un essere sradicato nel tempo e nello spazio rispetto ad una inglobante metastoria tecnologica.
Per esempio:
Quali prospettive apre l’ibridazione tra biologia umana e tecnologia? (Farisco, 2011)
Il concetto di singolarità, derivato dalla fisica, introdotto agli inizi degli anni Novanta da Vernor Vinge (1993), associato a una specie di “super umanità” dotata di menti speciali capaci di connettersi direttamente a intelligenze artificiali e cyborg, corpi tecnologicamente e geneticamente modificati con protesi sensoriali (Fassano Iossa, 2013), segna davvero l’inizio del post-umano, del post-biologico come unica possibilità di sopravvivere della vita intelligente sulla Terra? E ancora: quanto è ampio il divario cognitivo tra macchine ed esseri viventi (cfr. il Cambriano della robotica di Nourbakhsh, 2013)1.
I crescenti sviluppi delle neuroscienze, della robotica, della neuroinformatica rinviano a prospettive transumanistiche e postumanistiche: dunque, quanto risultano inattuali le categorie dell’umanesimo? (Soprattutto alla luce della rivoluzione che le stesse neuroscienze hanno operato sul concetto di coscienza - si pensi, in particolare, alla naturalizzazione della mente, al cervello come luogo in cui abita la coscienza; in generale, al passaggio dal soggetto forte, con una sua identità, una sua certezza, già oggetto dello sfondamento nicciano e di gran parte del pensiero novecentesco (Foucault, tanto per fare un nome), ad un soggetto espressivo di radicamento biologico, componenti neurali, dinamiche biochimiche che attivano determinate funzioni cerebrali, privato di garanzie metafisiche, ricondotto, nell’opera di decostruzione biochimica, alla sua strutturale precarietà (Marraffa, Paternoster, 2013). Da qui, l’utilità di un confronto serrato con i concetti di somatizzazione e di biopolitica di Nikolas Rose (2007), ma anche con le riflessioni sul passaggio dalla Personhood alla Brainhood di Fernando Vidal, 2009).
In questo contesto, senza rischiare di essere accusati di derive tecnofobiche, possiamo affermare, che la tecnologia digitale, accanto a evidenti conquiste (essenzialità del “pensiero breve”, multitasking, accessibilità e democratizzazione delle fonti, ecc.), ha anche prodotto, soprattutto nelle generazioni più giovani, rilevanti “controfinalità”, nocive controindicazioni (Natoli, 2010). In particolare, la “tirannia del presente” (Eriksen, 2003) amplifica il tipico presentismo adolescenziale (Gabrielli, 2005), l’immediatezza e l’immaterialità delle fonti digitali pregiudica, nel loro uso distorto o riduzionistico, una adeguata cultura della memoria individuale, generazionale, collettiva, culturale (Assman, 2002, 1999, 1993, 1991; Ricoeur, 2003; Roth, 2001) la pazienza dell’analisi, la problematizzazione, la creatività, la formazione di una complessa architettura logico-epistemologica.
Per esempio, recuperare o implementare, nel curriculum formativo dei giovani, la lettura e l’analisi del documento filosofico (testi integrali o stralci significativi) potrebbe avere gravide ricadute sulle dinamiche cognitive, esistenziali e civiche delle nuove generazioni2; un autentico farmaco contro la “società della stanchezza” (Müdigkeitsgesellschaft, Byung- Chul, 2010), lo smarrimento dei significati di fondo dell’esistenza, che sembra connotare l’uomo d’oggi (Husserl, 1961; Gabrielli, 2010, Cocchi et al, 2014).
Riteniamo allora, senza intenti esaustivi e soprattutto dogmatici, che si possano individuare con un certo nitore, alla luce di quanto sopra, alcuni nodi antropologici, alcune modalità esistenziali, talune dinamiche interiori caratterizzanti l’attuale stare al mondo dei nostri giovani.
In primo luogo, ci troviamo di fronte ad una generazione digitalizzata (nativi digitali), con forme di apprendimento e codici comunicativi radicalmente mutati rispetto alle generazioni precedenti: vengono sviluppate capacità cognitive importanti, mentre altre vengono sfumate, vengono potenziati alcuni sensi (la vista) rispetto ad altri (il tatto, limitato al click), vengono, infine, modificate profondamente le forme individuali dell’apprendimento e dell’attenzione (Henry Jenkins, ex direttore del programma Comparative Media Studies del Mit di Boston, parla di “cultura partecipativa”).
In questo scenario, emerge una gioventù pragmatica (si impara facendo), tecnologicamente avanzata, ma tendenzialmente fragile sotto il profilo antropologico.
In particolare, ci sembrano determinarsi alcune fratture esistenziali così sintetizzabili:
dilatazione dell’età adolescenziale: i riti di iniziazione vengono procrastinati e la “lotta contro il corso del mondo”, poiché il futuro è visto come precario e ostile, viene obliterata a favore di un domesticismo barocco o di dinamiche gruppali all’insegna del “perpetuamente adolescenti”;
presentismo: il futuro viene vissuto non come progetto ma come evento minaccioso o effetto fatalistico, esito finale di un processo astorico, impersonale. La storia, nello scenario di una temporalità contratta, discontinua, è luogo dell’oblio, di una narrazione recisa poiché senza prospettiva. Come nota con acutezza Raffaele Mantegazza: «Conta solamente ciò che accade qui ed ora, simultaneamente in tutto il mondo; e che nel prossimo attimo verrà sostituito da altro, e ce ne disinteresseremo. È la mimesi del tempo delle merci, nulla si perde, tutto è sempre a portata di click sul mouse. E se nulla muore, nulla rinasce: il passato come trattenimento nella memoria di ciò che non è più, è inutile come il futuro, inteso come progettazione del nuovo» (Mantegazza, 2004);
conformismo o mimetismo esistenziale: primato del personaggio sulla persona, nella misura in cui la personalità, ovvero il nucleo irriducibile della persona, viene vista come qualcosa di greve, di imbarazzante, da occultare in un’epoca di nascondimento emotivo. In questo contesto, lo stare accanto prevale sull’esserci, alle dinamiche dell’interiorità si privilegia il sensorialismo (amplificazione degli stimoli esterni, rumore del mondo), con la conseguente incapacità di scegliere, assumersi responsabilità (banalizzazione dell’etica, narcotizzazione dei codici originari del vivere e del morire);
rifiuto delle strutture analitiche, del pensiero lungo e abissale, a favore di idee a corto raggio, prettamente pragmatiche, prive di sedimentazione e pazienza introiettiva, temporalmente contratte, quasi immote (il futuro, sovente, inizia e finisce al sabato sera, pregno di tragica definitività);
trionfo di nuovi valori o pseudo valori: esibizione totale di sé, poiché il pudore viene confuso con la mancanza di sincerità, felicità garantita a tutti, primato del corpo esibito su quello vissuto, spettacolarizzazione e virtualizzazione degli agiti.
digitalizzazione/virtualizzazione dell’esistenza: al di là delle diverse interpretazioni del cosiddetto virtuale (Lévy, 1995,1997; Virilio, 2000; Morozov 2011,2013; Serres, 2013; Gabrielli, 2014), è fuori di dubbio che ci troviamo di fronte ad una nuova ontologia dello spazio e del tempo, dalla smaterializzazione platonica3 ad una profonda revisione dei concetti di possibile, potenziale, potente, virtuale , che nella realtà on line, rispetto alla differenziazione o contrapposizione della tradizione filosofica, risultano compresenti (Fabris, 2007). Il nuovo orientamento ontologico dello spazio-tempo, dei vissuti, degli agiti prodotto dal virtuale interpella l’adulto ad affinare la conoscenza del mondo della rete, in modo da intercettare i giovani nel loro linguaggio, nelle loro esperienze, al fine di tracciare un percorso fecondo e fecondante dall’etica nel virtuale all’etica del virtuale. In altri termini, non basta la netiquette, occorre una fondazione etica, un’etica della relazione che rinvii ad un’etica generale capace di andare oltre l’indifferenza tra possibile e reale, fusione o esclusione, che obliterano il polo relazionale (Fabris, 2007).
In questo scenario, si strutturano personalità emotivamente gracili, ripiegate su se stesse, fruitrici più che produttrici, ansiose, quando non angosciate, in cerca di autoaffermazione più che di riconoscimento dall’altro e dell’altro, in vista della promozione di una identità autentica.
Il problema critico della ricerca di una propria identità da parte dei giovani viene ulteriormente amplificato dal generale smarrimento del sé in una società, peraltro, altamente complessa.
Occorre, allora, alimentare la naturale “espansione di potenza” dei giovani non solo con suggestivi inviti all’”assenza come promozione della ricerca”, alla “trasformazione come missione creativa del cambiamento”, alla “rivelazione di sé a sé” (Galimberti, 2007; Lyotard 2012), ma tramite un richiamo forte, radicato criticamente nello spirito del tempo tecnologico4, all’educazione, con cui “varcare le brume del sopore e del languore” (Demetrio, 2009), ad una strutturale cura di sé, con cui produrre forme di controrespiro o, per usare una plastica immagine di Rovatti, un “guasto nel sistema” (Rovatti, 2006), finalizzato a foucaultiani lampi di possibili tempeste.
Detto in altri termini, occorre un riorientamento gestaltico di tipo culturale, l’unico capace di andare in profondità, oltre l’inessenziale, il mero aggiustamento tecnico, per imprimere una svolta, un risveglio di anime altrimenti infiacchite, abbarbicate su linguaggi tautologici, su vissuti scarni ed evanescenti, sul mero immagazzinamento di idee, espressive di una fiumana esistenziale biodegradabile.
La cosa sembra di per sé evidente, ma, come ricorda Aristotele:
«E fors’anche, poiché ci sono due tipi di difficoltà, la causa della difficoltà della ricerca della verità non sia nelle cose, ma in noi. Infatti, come gli occhi delle nottole si comportano nei confronti della luce del giorno, così anche l’intelligenza che è nella nostra anima si comporta nei confronti delle cose che, per natura loro, sono le più evidenti». 5 (Aristotele, 2008; Nussubaum, 2010; Corbellini, 2013; Ordine, 2013; Reale 1996).
2. Il sentiero del giorno
Nello spazio angusto di queste pagine non ci è permesso di entrare nella sostanza analitica di un possibile tracciato culturale con cui provare a disinnescare le “controfinalità” della tecnica (Gabrielli, 2005, 2011), possiamo, al limite, fornire qualche linea esemplificativa.
In primis, occorre andare oltre gli approcci naïve all’adolescenza come terra di mezzo, spazio di Artemide, momento di transizione incerta tra fasi di vita, ma affrontarla nel segno della complessità (Urbani Ulivi, 2010, 2013; Gabrielli et al., 2013), tramite un confronto dialettico, in rete, tra adulti e giovani (adattando una nitida immagine ricoeuriana, potremmo parlare di “reciprocità degli insostituibili”, nel segno di un «apprendistato di umanità») [Ricoeur, 2000; Zanardi 2001; Blakmore, 2014].
Dunque, venuta meno la freudiana Sicherheit 6, radicatasi la difficoltà strutturale a sintetizzare compiutamente teukein e legein 7 (Magatti, 2009), impostasi una cultura narcisistica o dell’indifferenza (Lasch, 1984: Zamperini, 2007), prevalsa un’antropologia dei legami affettivi a corto raggio, della chiusura privatistica o, al limite, dell’arroccamento tribale, in un contesto complessivo in cui il fondo biologico delle psicopatologie dell’umore viene amplificato dalle dinamiche esistenziali tecnologiche (Cocchi et al, 2013; Giannelli et al., 2013; Gabrielli et al., 2012; Cocchi et al., 2014; Cocchi et al. 2011), il sentiero del giorno può essere percorso solo con una condivisa cultura del limite. La “giusta misura”, ereditata dai Greci e opportunamente ricontestualizzata (Gabrielli, 2009, 2013; Clerici et al, 2010; Gabrielli et al, 2010), permette di calibrare una cultura delle scelte, a fronte delle mere competenze della tecnica (Irti, 2014), riorientando le coscienze all’incantesimo del mondo (si pensi, per esempio, allo charme di Jankélévitch, 1980), alla degnificazione della persona, alla narrazione condivisa e comunitaria della storia, rifacendo zampillare virtù obliate come il coraggio, la fortezza, il pudore e, soprattutto, il vivo senso della fragilità umana, via privilegiata alla relazione.